Fissare le stelle con le mani e con gli occhi

ll fuoco di un cuore che incendia la mente
Può fondere il gelo del marmo bollente
Onoro il braccio che muove il telaio
Onoro la forza che muove l’acciaio
Esiste lo so!

A ja ljublju SSSR

CCCP

Marco Degl’Innocenti davanti all’opera Coesistere

La mano e la mente sono in costante connessione. Gli strumenti sono una nostra naturale estensione, sono co-creatori. Marco Degl’Innocenti gioca con la creazione e con i materiali, con le superfici, a volte con l’inganno, per dare spazio alla dimensione del lavoro, dello stare in studio sull’opera, sull’oggetto, con la mente e con le mani. La mano dell’artista esegue gli ordini delle idee, come se dall’ideazione fino al momento della realizzazione non ci fosse dispersione di energia. Una produzione senza deleghe, senza intermediari.
Tornare a toccare, a creare con la mano e a impugnare gli strumenti del mestiere.
Gli strumenti che Marco utilizza diventano poi, a loro volta, oggetto della riflessione, nella consapevolezza che quell’oggetto sia un prodotto dell’uomo, suo “amico” e sua evoluzione, che con il tempo e la familiarità permette all’artista di estendere la sua mano, e la sua manualità.

“L’essere umano ha da sempre potenziato l’apparato fisiologico naturale con pezzi aggiunti, le protesi per prolungare la propria dotazione naturale, l’uomo si distingue dall’animale per capacità di usare strumenti e li varia e li migliora con il tempo. 
La cultura, dunque, si articola inevitabilmente in due livelli (in due strati, in due ambiti funzionali), l’uno dei quali è da dirsi propriamente materiale, e riguarda la sfera delle pratiche tecniche, degli interventi strumentali, e l’altro riguarda la sfera delle ‘fughe in avanti’, il momento in cui l’uomo ‘pensa’ alle possibilità future. 
Certo, occorre guardarsi, appunto, dal cadere nei due errori opposti, di credere cioè che il martello sia esclusivamente natura o materia, trascurando di cogliere di esso l’aspetto che ne fa un’idea materializzata; o di considerare le idee come spazio di contemplazione pura, avulsa dalla vita pratica.”

L’opera Coesistere è un ardito innesto di chiavi inglesi su rami di alberi riprodotti in bronzo: natura e artificio, un materiale ricco come il bronzo accanto all’acciaio proveniente da un qualsiasi bancone di officina. Lo strumento da lavoro diventa frutto, così come un disegno o una scultura sono il frutto dell’artista creatore. La spontaneità e il mistero della natura accanto alla praticità della chiave inglese, in un rincorrersi tra forme culturali e naturali, in un continuo stato di collaborazione tra uomo e natura.
Cosa è naturale allora? Una pianta, quando cresce, supera legge di gravità. 

Questa simbiosi tra l’uomo, i suoi strumenti, e la natura è ben percepibile nella serie di disegni Accordo. Qui l’artista cerca, e trova, armonia tra elementi apparentemente inconciliabili e lontani, ma in realtà estensione e propaggine della terra. Sul disegno a grafite di un ramo si sovrappone anche qui la riproduzione di una chiave inglese, una replica in gesso, una materiale che si confonde con il foglio bianco da disegno, riportando a una consonanza naturale tra elementi. Una sintonia che avviene attraverso un processo artistico e di visione.
Germano Olivotto, artista prematuramente scomparso che ha lavorato tra gli anni Sessanta e Settanta, operava delle “sostituzioni” nelle quale inseriva un tubicino al neon sul ramo di un albero. Questi tipi di interventi avvenivano sia come installazioni, che anticipavano interventi di arte ambientale, che come fotografie di alberi su cui veniva direttamente installata la luce al neon. Un intervento umano sulla natura che non era, come in questo caso, né brutale né aggressivo.

In Coesistere e Accordo gli elementi naturali si sintonizzano con qualcosa di altro. Non si tratta di un’alterazione della natura, ma di una metafora della convivenza e dello sviluppo spontaneo delle cose, in cui l’intervento dell’uomo non risulta invadente. 

Manualità è l’opera in cui la dimensione concettuale si spinge più in là e in cui la poetica di Marco Degl’Innocenti si rende esplicita. Attraverso il calco di tutte e cinque le impronte delle dita, l’artista crea delle micro-sculture in bronzo con le quali compone a parete la scritta MANUALITÀ: la realtà diventa concetto. Il senso del tatto è enfatizzato, partendo da una riduzione a traccia, o impronta, che riesce a evocare e a materializzare prepotentemente un’idea.
Uno dei testi a cui Marco Degl’Innocenti fa spesso riferimento è Elogio della mano, il saggio del 1939 di Henri Focillon in cui si parla di un’amicizia tra la mano e l’utensile, e quella progressiva abilità e simbiosi che nasce e che fa diventare lo strumento cosa viva. Attraverso la mano avviene la conoscenza, il bambino tocca per conoscere le cose e l’artista prolunga quell’esperienza. La mano è l’estensione della nostra mente.


In questo momento su Marte è in corso la Missione Perseverance e un sofisticatissimo robot, dotato appunto di una mano meccanica, sta raccogliendo campioni di roccia da rispedire sulla terra per analizzarli e capire se c’è traccia di vita. Una mano manovrata dal pianeta terra è giunta fino su Marte, la nostra protesi si è estesa fino là. 
Gli strumenti diventano un tutt’uno con l’uomo nell’opera dell’artista fiorentino, ma non nel senso di annullamento anestetico in cui l’inorganico si sostituisce alla carne, ma una metamorfosi gentile, un cambiare pelle giocoso, come fosse naturale ma non scontato. Non uno straniamento, né un compiacimento estetico o un puro esercizio di stile ma sincera sintonia. Un tocco che sente la vibrazione dello scorrere lieve di una matita su un foglio, del martello che forgia un pezzo di metallo, della sgorbia che incide il legno. Pelle, nervi, muscoli, ossa, collegati al cuore e al cervello; l’occhio osserva e sente, l’orecchio è su ogni poro. Come un voler amplificare per il timore di perdere queste abilità e immolarsi contro un’estinzione programmata del fare.

L’opera Terra perduta rende esplicito questo concetto. Innestando il calco in bronzo delle sue mani su due strumenti da lavoro – sul manico di una zappa e di una vanga – l’artista crea una sorta di autoritratto che però non è un busto da collocare su un piedistallo, ma una protesi, uno strumento che idealmente estende le capacità, senza la presunzione di elevarsi, ma restando appoggiato a terra, toccando letteralmente il suolo.
La mano tocca, plasma e crea, la mano accarezza, la mano è lavoro e riposo, è creazione e piacere. L’universo è tutto da esplorare: la terra, il cielo e i pianeti ma anche noi stessi e il nostro corpo. Di solito si studia la materia, ma siamo composti anche di energia vitale, di una parte invisibile dell’essere e della sostanza. Le mani sono anche un prolungamento del cuore, sono quasi la fioritura del nostro essere. Il sentire e toccare dell’artista è capace di portarci oltre i cinque sensi.

Un dito in alabastro appare appoggiato su una tavoletta in scagliola, tecnica di intarsio che tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento nacque per imitare marmi e pietre dure e realizzare manufatti altrettanto belli ma meno costosi e pesanti. Io, alabastro e scagliola: le preziose tavolette ritraggono ancora una volta una chiave inglese, utensile brevettato in piena rivoluzione industriale nella prima metà dell’Ottocento, uno strumento appartenente all’età meccanica pre-elettronica. Uno strumento banale che fa parte dell’equipaggiamento di un’officina meccanica ma che è presente in ogni casa come elemento essenziale per piccole riparazioni domestiche. Uno strumento che prima non c’era ma con il quale l’essere umano ha preso confidenza e che, una volta afferrato dalla mano, ne potenzia le capacità. Un dialogo tra materiali e tecniche quasi desuete, con cui l’artista si ritrae inserendo la riproduzione del suo dito in alabastro, che resta però in disparte, sul bordo della rappresentazione, quasi come una firma, una testimonianza o una semplice indicazione.

La stessa mano si diverte a manipolare e trasformare, semplicemente piegando delle monete che vengono installate nell’angolo di una stanza in Lavoro remunerativo. Di nuovo piccoli pezzi vanno a formare un insieme, monete di metallo allungate dalle dita dell’artista, compiaciuto nel giocare con il concetto di produzione, di quantità, di idee, di un lavoro – come quello dell’artista – che spesso non corrisponde alla quantità di ore impiegate ma dall’ideazione che dà forma alle cose. Una sfida alla società consumistica.

Si rafforza l’omaggio alla mano, e al lavoro manuale, nelle opere Manforte e Mano destra e mano sinistra in cui il soggetto dell’opera diventa il guanto da lavoro. In Manforte la coppia di guanti è congelata in una forma di rame installata in un’asta filettata. Mentre in Mano destra e mano sinistra dei medesimi guanti resta solo un’impronta ricavata su due tavolette di porcellana. Una serie di bulloni realizzati in alabastro e avvitati sempre su di un’asta filettata si colloca tra le due tavolette, continuando quel dialogo tra arte e artigianato, in una contemplazione di quei banali strumenti del lavoro quotidiano che tanto hanno aiutato e aiutano l’essere umano nello svolgimento delle sue attività. Se la mani di Terra perduta toccavano il suolo, i bulloni, come le chiavi inglesi appese ai rami di Coesistere, si proiettano in alto.

In Riposo Estivo tutti i materiali sono coperti dello stesso colore, cambiano pelle e diventano tutt’uno con lo sfondo che è un cielo dipinto a vernice su una lastra di alluminio. Due martelli realizzati con due fusioni diverse, una in bronzo e una in alluminio, sono dipinti come fossero dello stesso cielo della base su cui si accendono, una ad una, le stelle. Stelle che sono sogno, che sono quel cielo che solitamente sovrasta e che invece si rovescia a terra per farsi culla e pavimento. Stelle che l’artista accende scalfendo la patina di colore con per tirare fuori quella luce che l’alluminio, materiale conduttore per eccellenza, sa restituire. Una sosta, una tregua. Lo strumento, i due martelli, sono io che sogno di riposare, che sogno di prendere una posizione di riposo, che smetto di battere e colpire. Il tempo del riposo e il tempo del lavoro sono tempi che nella ricerca di un artista si sovrappongono. L’opera d’arte è spesso un sogno potente che diventa realtà, qualcosa che ci tiene svegli la notte. 

In Notte stellare è ancora più esplicito il senso di non riposo che accompagna l’artista. Un cuscino tempestato di stelle che in realtà sono piccole capocchie di viti a stella, fissate su una stoffa di jeans, un tipo di stoffa un tempo usata nell’antico porto di Genova per coprire le merci o per confezionare i sacchi in cui erano riposte le vele delle navi. Di nuovo elementi prelevati dal mondo del lavoro. Come se l’artista, durante il sonno, continuasse con un movimento automatico a fare, come se le sue mani continuassero a produrre, proprio lì, sotto la testa, che riposa, o forse pensa. Pensa a quello che ha fatto oggi o a quello che farà domani. E infatti, poco sopra, al posto del comodino troviamo un cacciavite infilato in verticale nel suo apposito porta cacciaviti: l’impugnatura è di bronzo ed è il calco della mano di colui che ha fissato con perizia e ordine le stelle.

L’artista si prepara a fissarle di nuovo – le stelle – non più con la mano ma con gli occhi e lo sguardo dovrebbe salire metaforicamente al cielo. Fissare con le mani e con gli occhi, in uno scivolare del verbo tra l’azione e la contemplazione. Come quando dopo aver creato ci si discosta leggermente, si posano gli strumenti e si osserva l’opera compiuta. Sul cuscino si posano idee e fatiche.

Piacevole sollievo è di nuovo una pausa, un inganno, una bottiglia che sembra piena. L’artista ha realizzato delle gocce artificiali sulla superficie, proprio come quelle che si formano in estate su una bottiglia appena tirata fuori dal frigo. L’opera sembra voler indicare un preciso momento, quello in cui le mani smettono di creare e la mente si ristora. Ma anche durante questa sosta l’artista continua a pensare; pensa all’oggetto, pensa a come sospendere il tempo e lo fa installando ad una ad una le gocce di acqua, con la stessa cura con la quale aveva avvitato le stelle sul cuscino.

Torno subito, vorrebbe dire l’artigiano che si è appena concesso un momento di riposo. Mette il cartello sulla vetrina e attacca al chiodo il suo grembiule da lavoro. Ecco di nuovo il jeans e e le chiavi inglesi dall’impugnatura anatomica, e quella mano che nel suo incessante creare non lascia mai la presa e fissa infine la sua impronta sullo strumento. Un’impronta perenne, un “elogio della mano”, marchio di fabbrica, segno di riconoscimento come fosse un firma d’autore.

“Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato”

Recita così il Salmo 8 dal libro dei Salmi nel Vecchio Testamento, rivolto al quel Dio creatore che fissa in cielo la luna e le stelle, proprio con le sue dita. Per noi spettatori non resta che guardare, contemplare, fissare, e riflettere sulle meraviglie che la nostra mano può creare. Ricordandoci però che le idee non sono solo pura contemplazione e che il cielo può davvero diventare qualcosa di più terreno, tanto da abbassarsi fino a noi per farci appoggiare, la testa, la mano e il martello.

Serena Becagli

Note bibliografiche

Renato Barilli, Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, Bologna, Il Mulino, 1982.
Henry Focillon, Vita della forme, seguito da Elogio della mano, Torino, Einaudi 1990.


Un Commento

  1. Bravo Marco,oltre a d essere una brava persona sei anche bravo come artista! bello il testo della Serena ,lei è sempre la più brava e certamente bravo anche a Serge un abbraccio Sandra

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  2. The sculpture of Marco Degl’Innocenti is particularly important to us in this period when we have been sealed off from the world. It reminds us to reach out, and that the hands are extensions of our minds. The work, elegant and essential, may seem like spontaneous intuitions— simple—until you consider the mastery required for these poetic illusions.

    La scultura di Marco Degl’Innocenti è particolarmente importante in questo periodo in cui siamo stati isolati dal mondo. Ci aiuta a ricordarci di tendere le mani, le nostre mani, che sono estensioni delle nostre menti. Le opere sembrano intuizioni eleganti e spontanee—semplici—finché non si considera la maestria richiesta per queste illusioni poetiche.

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