Le opere Accordo e Terra perduta nella mostra Paesaggi personali alla Galleria Vannucci di Pistoia.

Marco Degl’Innocenti, le opere Accordo e Terra Perduta all’interno della mostra Paesaggi Personali, Galleria ME Vannucci Pistoia, dicembre 2021-gennaio 2022, foto Alessandra Cinquemani.

Paesaggi personali è un paesaggio plurale in cui il personale – privato e intimo – si apre alla rivelazione e alla condivisione. Un panorama composto da singole storie, quelle degli artisti Antonello Ghezzi, Sergia Avveduti,Mohsen Baghernejad Moghanjooghi, Luca Caccioni, Fabrizio Corneli, Marco Degl’Innocenti, Lori Lako, Erika Pellicci, Sandra Tomboloni, che si esplica in una pluralità di punti di vista e inquadrature, di riflessioni e stati d’animo. Ogni opera è un posto dove non siamo mai stati, un sentimento che non abbiamo ancora provato.

La notte del primo ottobre 2021 è caduto un meteorite tra Pistoia e Prato. Una roccia di colore nero intenso di pochi centimetri di diametro e che pesa fra i 30 e i 100 grammi ha attraversato il cielo ed è stata avvistata da ben otto telecamere. Il meteorite non è stato ancora recuperato e gli scienziati si sono appellati agli abitanti della zona, che si sono organizzati per le ricerche. Una parte di universo sconosciuta è caduta sulla Terra proprio in questo periodo, qui vicino, suscitando inevitabilmente attenzione, sogno, curiosità e interesse scientifico.

In un momento in cui siamo iper-connessi e tutto sembra a portata di mano, inscatolato e catalogato, un piccolo frammento di roccia extraterrestre ci richiama al mistero e alla distanza.

Nicolas Bourriaud nel suo recente saggio Inclusioni. Estetica del capitalocene ci ricorda la preoccupazione di Aby Warburg quando nel 1896 nel suo scritto Il rituale del serpente dice: “Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, lottando per attribuire una dimensione spirituale alla relazione dell’uomo con il suo ambiente, hanno fatto dello spazio una zona di contemplazione o di pensiero, spazio che la comunicazione elettrica istantanea annienta”.

Il tema del paesaggio è un tema infinito, che ci parla dell’incontro di natura e cultura, dello stratificarsi di gesti, scelte, tradizione e innovazione. L’opera d’arte può diventare quel dispositivo trasformatore che ci fa compiere un passo indietro e che ci fa introdurre volontariamente una distanza con il mondo esterno, per vederlo e sentirlo in modo nuovo.

Un percorso tra video, sculture, installazioni, interventi site-specific, carte, disegni, fotografie, luci, proiezioni e apparizioni, in cui i termini più ricorrenti sono: stratificazione, memoria, terra, trasparenza, architettura, cielo, origine, limite, destinazione.

La mostra Paesaggi personali, a cura di Serena Becagli, osserva alcuni aspetti della rappresentazione, del sogno, della ricostruzione del paesaggio, della riflessione sul cosmo e su quello che ci sta intorno, in cui alcuni artisti – di diverse generazioni e di diversa provenienza geografica – si confrontano in una convivialità delle differenze.”

Marco Degl’Innocenti (Firenze, 1972) porta avanti una ricerca che indaga tutti quegli aspetti riguardanti la manualità, la creazione e il rapporto tra l’artista e le sue opere, tra la mano e i suoi strumenti. Il tema del lavoro, con i suoi attrezzi e i suoi tempi, si traduce in curiosi collegamenti di materiali e oggetti, che coesistono in perfetta armonia con gli elementi naturali.

L’opera Terra perduta rende esplicito questo concetto. Innestando il calco in bronzo delle sue mani su due strumenti da lavoro – sul manico di una zappa e di una vanga – l’artista crea una sorta di autoritratto che però non è un busto da collocare su un piedistallo, ma una protesi, uno strumento che idealmente estende le capacità, senza la presunzione di elevarsi, ma restando appoggiato a terra, toccando letteralmente il suolo. La mano tocca, plasma e crea, la mano accarezza, la mano è lavoro e riposo, è creazione e piacere. 

Questa simbiosi tra l’uomo, i suoi strumenti, la natura e il paesaggio, è ben percepibile nella serie di disegni Accordo. Qui l’artista cerca, e trova, armonia tra elementi apparentemente inconciliabili e lontani, ma in realtà estensione e propaggine della terra. Sul disegno a grafite di un ramo si sovrappone la riproduzione di una chiave inglese, una replica in gesso, un materiale che si confonde con il foglio bianco da disegno, riportando a una consonanza naturale tra elementi. Una sintonia che avviene attraverso un processo artistico e di visione.” (Serena Becagli)

Paesaggi personali, foto di gruppo.
Particolare dei supporti in terracotta.
Accordo, 2020, disegno a mina e gesso alabastrino, supporti in terracotta.
Paesaggi personali, veduta generale della mostra, Galleria ME Vannucci, Pistoia, foto Alessandra Cinquemani.
Marco Degl’Innocenti, Terra perduta, 2021, bronzo e legno (particolare). Foto Alessandra Cinquemani

PAESAGGI PERSONALI
Antonello Ghezzi, Sergia Avveduti, Mohsen Baghernejad Moghanjooghi, Luca Caccioni, Fabrizio Corneli, Marco Degl’Innocenti, Lori Lako, Erika Pellicci, Sandra Tomboloni

5 dicembre 2021 – 29 gennaio 2022
a cura di Serena Becagli

Galleria ME Vannucci, Pistoia

Fissare le stelle con le mani e con gli occhi

ll fuoco di un cuore che incendia la mente
Può fondere il gelo del marmo bollente
Onoro il braccio che muove il telaio
Onoro la forza che muove l’acciaio
Esiste lo so!

A ja ljublju SSSR

CCCP

Marco Degl’Innocenti davanti all’opera Coesistere

La mano e la mente sono in costante connessione. Gli strumenti sono una nostra naturale estensione, sono co-creatori. Marco Degl’Innocenti gioca con la creazione e con i materiali, con le superfici, a volte con l’inganno, per dare spazio alla dimensione del lavoro, dello stare in studio sull’opera, sull’oggetto, con la mente e con le mani. La mano dell’artista esegue gli ordini delle idee, come se dall’ideazione fino al momento della realizzazione non ci fosse dispersione di energia. Una produzione senza deleghe, senza intermediari.
Tornare a toccare, a creare con la mano e a impugnare gli strumenti del mestiere.
Gli strumenti che Marco utilizza diventano poi, a loro volta, oggetto della riflessione, nella consapevolezza che quell’oggetto sia un prodotto dell’uomo, suo “amico” e sua evoluzione, che con il tempo e la familiarità permette all’artista di estendere la sua mano, e la sua manualità.

“L’essere umano ha da sempre potenziato l’apparato fisiologico naturale con pezzi aggiunti, le protesi per prolungare la propria dotazione naturale, l’uomo si distingue dall’animale per capacità di usare strumenti e li varia e li migliora con il tempo. 
La cultura, dunque, si articola inevitabilmente in due livelli (in due strati, in due ambiti funzionali), l’uno dei quali è da dirsi propriamente materiale, e riguarda la sfera delle pratiche tecniche, degli interventi strumentali, e l’altro riguarda la sfera delle ‘fughe in avanti’, il momento in cui l’uomo ‘pensa’ alle possibilità future. 
Certo, occorre guardarsi, appunto, dal cadere nei due errori opposti, di credere cioè che il martello sia esclusivamente natura o materia, trascurando di cogliere di esso l’aspetto che ne fa un’idea materializzata; o di considerare le idee come spazio di contemplazione pura, avulsa dalla vita pratica.”

L’opera Coesistere è un ardito innesto di chiavi inglesi su rami di alberi riprodotti in bronzo: natura e artificio, un materiale ricco come il bronzo accanto all’acciaio proveniente da un qualsiasi bancone di officina. Lo strumento da lavoro diventa frutto, così come un disegno o una scultura sono il frutto dell’artista creatore. La spontaneità e il mistero della natura accanto alla praticità della chiave inglese, in un rincorrersi tra forme culturali e naturali, in un continuo stato di collaborazione tra uomo e natura.
Cosa è naturale allora? Una pianta, quando cresce, supera legge di gravità. 

Questa simbiosi tra l’uomo, i suoi strumenti, e la natura è ben percepibile nella serie di disegni Accordo. Qui l’artista cerca, e trova, armonia tra elementi apparentemente inconciliabili e lontani, ma in realtà estensione e propaggine della terra. Sul disegno a grafite di un ramo si sovrappone anche qui la riproduzione di una chiave inglese, una replica in gesso, una materiale che si confonde con il foglio bianco da disegno, riportando a una consonanza naturale tra elementi. Una sintonia che avviene attraverso un processo artistico e di visione.
Germano Olivotto, artista prematuramente scomparso che ha lavorato tra gli anni Sessanta e Settanta, operava delle “sostituzioni” nelle quale inseriva un tubicino al neon sul ramo di un albero. Questi tipi di interventi avvenivano sia come installazioni, che anticipavano interventi di arte ambientale, che come fotografie di alberi su cui veniva direttamente installata la luce al neon. Un intervento umano sulla natura che non era, come in questo caso, né brutale né aggressivo.

In Coesistere e Accordo gli elementi naturali si sintonizzano con qualcosa di altro. Non si tratta di un’alterazione della natura, ma di una metafora della convivenza e dello sviluppo spontaneo delle cose, in cui l’intervento dell’uomo non risulta invadente. 

Manualità è l’opera in cui la dimensione concettuale si spinge più in là e in cui la poetica di Marco Degl’Innocenti si rende esplicita. Attraverso il calco di tutte e cinque le impronte delle dita, l’artista crea delle micro-sculture in bronzo con le quali compone a parete la scritta MANUALITÀ: la realtà diventa concetto. Il senso del tatto è enfatizzato, partendo da una riduzione a traccia, o impronta, che riesce a evocare e a materializzare prepotentemente un’idea.
Uno dei testi a cui Marco Degl’Innocenti fa spesso riferimento è Elogio della mano, il saggio del 1939 di Henri Focillon in cui si parla di un’amicizia tra la mano e l’utensile, e quella progressiva abilità e simbiosi che nasce e che fa diventare lo strumento cosa viva. Attraverso la mano avviene la conoscenza, il bambino tocca per conoscere le cose e l’artista prolunga quell’esperienza. La mano è l’estensione della nostra mente.


In questo momento su Marte è in corso la Missione Perseverance e un sofisticatissimo robot, dotato appunto di una mano meccanica, sta raccogliendo campioni di roccia da rispedire sulla terra per analizzarli e capire se c’è traccia di vita. Una mano manovrata dal pianeta terra è giunta fino su Marte, la nostra protesi si è estesa fino là. 
Gli strumenti diventano un tutt’uno con l’uomo nell’opera dell’artista fiorentino, ma non nel senso di annullamento anestetico in cui l’inorganico si sostituisce alla carne, ma una metamorfosi gentile, un cambiare pelle giocoso, come fosse naturale ma non scontato. Non uno straniamento, né un compiacimento estetico o un puro esercizio di stile ma sincera sintonia. Un tocco che sente la vibrazione dello scorrere lieve di una matita su un foglio, del martello che forgia un pezzo di metallo, della sgorbia che incide il legno. Pelle, nervi, muscoli, ossa, collegati al cuore e al cervello; l’occhio osserva e sente, l’orecchio è su ogni poro. Come un voler amplificare per il timore di perdere queste abilità e immolarsi contro un’estinzione programmata del fare.

L’opera Terra perduta rende esplicito questo concetto. Innestando il calco in bronzo delle sue mani su due strumenti da lavoro – sul manico di una zappa e di una vanga – l’artista crea una sorta di autoritratto che però non è un busto da collocare su un piedistallo, ma una protesi, uno strumento che idealmente estende le capacità, senza la presunzione di elevarsi, ma restando appoggiato a terra, toccando letteralmente il suolo.
La mano tocca, plasma e crea, la mano accarezza, la mano è lavoro e riposo, è creazione e piacere. L’universo è tutto da esplorare: la terra, il cielo e i pianeti ma anche noi stessi e il nostro corpo. Di solito si studia la materia, ma siamo composti anche di energia vitale, di una parte invisibile dell’essere e della sostanza. Le mani sono anche un prolungamento del cuore, sono quasi la fioritura del nostro essere. Il sentire e toccare dell’artista è capace di portarci oltre i cinque sensi.

Un dito in alabastro appare appoggiato su una tavoletta in scagliola, tecnica di intarsio che tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento nacque per imitare marmi e pietre dure e realizzare manufatti altrettanto belli ma meno costosi e pesanti. Io, alabastro e scagliola: le preziose tavolette ritraggono ancora una volta una chiave inglese, utensile brevettato in piena rivoluzione industriale nella prima metà dell’Ottocento, uno strumento appartenente all’età meccanica pre-elettronica. Uno strumento banale che fa parte dell’equipaggiamento di un’officina meccanica ma che è presente in ogni casa come elemento essenziale per piccole riparazioni domestiche. Uno strumento che prima non c’era ma con il quale l’essere umano ha preso confidenza e che, una volta afferrato dalla mano, ne potenzia le capacità. Un dialogo tra materiali e tecniche quasi desuete, con cui l’artista si ritrae inserendo la riproduzione del suo dito in alabastro, che resta però in disparte, sul bordo della rappresentazione, quasi come una firma, una testimonianza o una semplice indicazione.

La stessa mano si diverte a manipolare e trasformare, semplicemente piegando delle monete che vengono installate nell’angolo di una stanza in Lavoro remunerativo. Di nuovo piccoli pezzi vanno a formare un insieme, monete di metallo allungate dalle dita dell’artista, compiaciuto nel giocare con il concetto di produzione, di quantità, di idee, di un lavoro – come quello dell’artista – che spesso non corrisponde alla quantità di ore impiegate ma dall’ideazione che dà forma alle cose. Una sfida alla società consumistica.

Si rafforza l’omaggio alla mano, e al lavoro manuale, nelle opere Manforte e Mano destra e mano sinistra in cui il soggetto dell’opera diventa il guanto da lavoro. In Manforte la coppia di guanti è congelata in una forma di rame installata in un’asta filettata. Mentre in Mano destra e mano sinistra dei medesimi guanti resta solo un’impronta ricavata su due tavolette di porcellana. Una serie di bulloni realizzati in alabastro e avvitati sempre su di un’asta filettata si colloca tra le due tavolette, continuando quel dialogo tra arte e artigianato, in una contemplazione di quei banali strumenti del lavoro quotidiano che tanto hanno aiutato e aiutano l’essere umano nello svolgimento delle sue attività. Se la mani di Terra perduta toccavano il suolo, i bulloni, come le chiavi inglesi appese ai rami di Coesistere, si proiettano in alto.

In Riposo Estivo tutti i materiali sono coperti dello stesso colore, cambiano pelle e diventano tutt’uno con lo sfondo che è un cielo dipinto a vernice su una lastra di alluminio. Due martelli realizzati con due fusioni diverse, una in bronzo e una in alluminio, sono dipinti come fossero dello stesso cielo della base su cui si accendono, una ad una, le stelle. Stelle che sono sogno, che sono quel cielo che solitamente sovrasta e che invece si rovescia a terra per farsi culla e pavimento. Stelle che l’artista accende scalfendo la patina di colore con per tirare fuori quella luce che l’alluminio, materiale conduttore per eccellenza, sa restituire. Una sosta, una tregua. Lo strumento, i due martelli, sono io che sogno di riposare, che sogno di prendere una posizione di riposo, che smetto di battere e colpire. Il tempo del riposo e il tempo del lavoro sono tempi che nella ricerca di un artista si sovrappongono. L’opera d’arte è spesso un sogno potente che diventa realtà, qualcosa che ci tiene svegli la notte. 

In Notte stellare è ancora più esplicito il senso di non riposo che accompagna l’artista. Un cuscino tempestato di stelle che in realtà sono piccole capocchie di viti a stella, fissate su una stoffa di jeans, un tipo di stoffa un tempo usata nell’antico porto di Genova per coprire le merci o per confezionare i sacchi in cui erano riposte le vele delle navi. Di nuovo elementi prelevati dal mondo del lavoro. Come se l’artista, durante il sonno, continuasse con un movimento automatico a fare, come se le sue mani continuassero a produrre, proprio lì, sotto la testa, che riposa, o forse pensa. Pensa a quello che ha fatto oggi o a quello che farà domani. E infatti, poco sopra, al posto del comodino troviamo un cacciavite infilato in verticale nel suo apposito porta cacciaviti: l’impugnatura è di bronzo ed è il calco della mano di colui che ha fissato con perizia e ordine le stelle.

L’artista si prepara a fissarle di nuovo – le stelle – non più con la mano ma con gli occhi e lo sguardo dovrebbe salire metaforicamente al cielo. Fissare con le mani e con gli occhi, in uno scivolare del verbo tra l’azione e la contemplazione. Come quando dopo aver creato ci si discosta leggermente, si posano gli strumenti e si osserva l’opera compiuta. Sul cuscino si posano idee e fatiche.

Piacevole sollievo è di nuovo una pausa, un inganno, una bottiglia che sembra piena. L’artista ha realizzato delle gocce artificiali sulla superficie, proprio come quelle che si formano in estate su una bottiglia appena tirata fuori dal frigo. L’opera sembra voler indicare un preciso momento, quello in cui le mani smettono di creare e la mente si ristora. Ma anche durante questa sosta l’artista continua a pensare; pensa all’oggetto, pensa a come sospendere il tempo e lo fa installando ad una ad una le gocce di acqua, con la stessa cura con la quale aveva avvitato le stelle sul cuscino.

Torno subito, vorrebbe dire l’artigiano che si è appena concesso un momento di riposo. Mette il cartello sulla vetrina e attacca al chiodo il suo grembiule da lavoro. Ecco di nuovo il jeans e e le chiavi inglesi dall’impugnatura anatomica, e quella mano che nel suo incessante creare non lascia mai la presa e fissa infine la sua impronta sullo strumento. Un’impronta perenne, un “elogio della mano”, marchio di fabbrica, segno di riconoscimento come fosse un firma d’autore.

“Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato”

Recita così il Salmo 8 dal libro dei Salmi nel Vecchio Testamento, rivolto al quel Dio creatore che fissa in cielo la luna e le stelle, proprio con le sue dita. Per noi spettatori non resta che guardare, contemplare, fissare, e riflettere sulle meraviglie che la nostra mano può creare. Ricordandoci però che le idee non sono solo pura contemplazione e che il cielo può davvero diventare qualcosa di più terreno, tanto da abbassarsi fino a noi per farci appoggiare, la testa, la mano e il martello.

Serena Becagli

Note bibliografiche

Renato Barilli, Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, Bologna, Il Mulino, 1982.
Henry Focillon, Vita della forme, seguito da Elogio della mano, Torino, Einaudi 1990.

MANUALITÀ

Manualità, carattere manuale di un lavoro, abilità nell’uso delle mani.

Quando penso a questa parola, provo una certa inquietudine perché mai vorrei che perdesse il suo enorme significato e il suo valore di creazione di oggetti, opere d’arte, e anche della scrittura stessa sempre più trascurata e sostituita. Saper far bene le cose per il proprio piacere, una regola di vita semplice e rigorosa che ha consentito lo sviluppo di tecniche raffinatissime e la nascita della conoscenza scientifica moderna creando artisti, ingegneri, architetti, orafi e liutai che univano conoscenza materiale e abilità manuale.

Mente e mano funzionano insieme rinforzandosi, l’una insegna all’altra e viceversa.

In questo mio lavoro la riflessione sulla parola “manualità” mi ha spinto a giocare su essa usando le mie impronte digitali, parte estrema delle mani. Un atto essenziale e gestuale inzuppando le mie dita nella cera calda per poi togliere la cera come fosse una seconda pelle. Ho utilizzato l’antica tecnica a cera persa per fondere in bronzo le impronte, disposte e collocate su di una parete. La mia ricerca è un invito rivolto alla società contemporanea di oggi per riflettere sull’importanza della parola stessa senza innescare nessuna polemica nostalgica.

Custodiscimi.

L’uso della terra così fragile e intima, per me estremamente importante, è  motivo di ispirazione.
Il mio lavoro vuole dare una simbolica importanza agli oggetti di uso quotidiano della vita contadina, oggetti come una vanga o una falce che di per sé sembrano senza valore, hanno invece un valore immenso. Più si usa un attrezzo, o uno strumento, più diventa parte del proprio corpo, capire come usarlo in modo sapiente fino a instaurarci un rapporto di affinità, il voler in modo imprescindibile prendersene cura. Un musicista che suona il proprio strumento se ne prende cura anche quando lo strumento dorme nella propria custodia, l’oggetto unito alla vita.

L’utensile in sé non è meno importante dell’uso cui è destinato, costituisce di per sé un risultato e un valore. Tra la mano e l’utensile ha inizio un’amicizia che non avrà fine. Quando è nuovo, l’utensile non è “fatto”; bisogna che tra esso e le dita che lo impugnano si stabilisca un accordo formato di appropriazione progressiva, di gesti lievi e coordinati, di abitudini reciproche e anche di una certa usura. Allora lo strumento inerte diventa una cosa viva.

Cit. H.Focillon, Vie des Formes suivi de èloge de la main, Paris 1943.

La ricerca e l’interesse dei miei lavori ruota intorno a questa citazione, un filo conduttore continuo.

Custodiscimi, nasce da una riflessione sul voler proteggere utensili di uso comune.
Il valore che ognuno dà alle proprie cose, citando il musicista, l’artigiano o il contadino, l’importanza che danno ai loro strumenti, alla loro fragilità nel trattarli e nel custodirli. Non c’è strumento più importante di un altro che possa mettere in rilievo o in ombra l’immagine di chi quello strumento usa. Lo scopo del mio lavoro è il voler far riflettere sulla manualità dell’uomo e su tutti quei mestieri che spesso non vengono ricordati nella loro essenziale importanza, come il mestiere del contadino.

L’immagine finale del mio lavoro è una custodia di terra cruda. La zappa e la falce sono impresse nella terra mescolata ad un inerte organico (prodotto per restauro di pietra e affreschi) reversibile con acqua. Mi piace pensare alla reversibilità del lavoro che possa cambiare uso e tornare terra.

Gli elementi in metallo, ossia le cerniere e le aste per tenere aperte la custodie sono fatte a mano in ottone galvanizzato in oro 24 carati.

Custodiscimi 2Custoscimi 5Custodiscimi 1

La mia residenza è un giaciglio.

Il lavoro pensato e realizzato durante la  residenza artistica in Palazzo Monti a Brescia sta nel significato della parola stessa: Residenza. Sostare, abitare, vivere, plasmando la parola in giaciglio, letto improvvisato con mezzi di fortuna. Sono sempre stato affascinato dai giacigli degli animali visti nei boschi, li ho sempre osservati provando un senso di grande conforto. La sosta, il riposo di un animale mi ricorda la base del cinghiale di Pietro Tacca (1577-1640). Ho voluto mantenere l’aspetto originale dei pani di argilla, non volevo che perdessero la loro immagine modulare. Il gesto di sedersi e sdraiarsi fatto di proposito ma non completamente esplicito, un’immagine sfumata come di un passato già accaduto. L’osservatore quindi dovrà sforzarsi e cercare le cinque posizioni,  che sono le notti passate a Palazzo Monti circondato da pensieri, piccoli animali e motivi vegetali, come le mie soste meditative nei boschi.

The completed work carried out during the artistic residency at the Palazzo Monti, in Brescia, can be described with one word: residency. The act of inhabiting a sanctuary constructed by pieces that came together by luck.

I’ve always been attracted to animal’s nests in the forests of Italy, watching  them peacefully take shelter gave me a sense of comfort.

The unwind, an animal’s rest reminds me of the base of Pietro Tacca’s boar (1577-1640).

I wanted to maintain the original look of clay beds loaves, I didn’t want to lose their modular imagine.

The concept of sitting and lying down, on purpose but not completely explicit, a blend imagine of an occurred past. The observer is forced to find the five positions, which were the number of nights I stayed at Palazzo Monti, with my thoughts, surrounded by animals and nature.

Tools.

Marco Degl’Innocenti TOOLS galleria C2 FIRENZE- marzo 2017-

Tools, strumenti del lavoro artigiano o contadino, attrezzi di una quotidianità desueta, quasi scomparsa, o elementi di un’immaginario deposito sentimentale personale, fissati nella forma plastica più raffinata che Marco Degl’Innocenti qui raccoglie e propone con l’attenzione preziosa dell’artista e la disposizione malinconica e ironica del poeta che ne certifica lo status di “cari estinti”. Si tratta di un’installazione site specific con cui Degl’Innocenti fa il suo esordio con una mostra personale che testimonia la necessità di misurarsi in un terreno nuovo, di fare i conti con sé stesso a metà del cammino.

Non è casuale a scelta della Galleria C2, spazio ricavato dal recupero di una vecchia lavanderia, a due passi dall’istituto d’arte di Porta Romana dove Marco Degl’Innocenti si è formato e dove è iniziata la carriera di artista restauratore che, in quasi trent’anni, lo ha visto confrontarsi, senza soluzione di continuità, con i grandi scultori rinascimentali e i migliori maestri moderni e contemporanei, passando per Canova. Senza dimenticare il ruolo di consulente alla realizzazione plastica per tutta una serie di artisti che stanno nel parterre de roi dell’arte contemporanea internazionale e non possono prescindere dalla sua grande sapienza delle cose “fatte ad arte”. Tutto questo non va dimenticato e costituisce una premessa necessaria ma non sufficiente. Premessa per un nuovo inizio, sempre nel territorio della scultura con le caratteristiche della narrazione figurativa. Una narrazione che, attraverso i vari, preziosi e ironici frammenti racconta la vicenda di un mondo che è scomparso, o sta scomparendo, sotto gli occhi di chi cerca di trattenerne i valori più profondi e più sentiti. E soprattutto di restituirne la sobria bellezza, spesso nascosta nei materiali.

Per quanto appropriato possa essere il riferimento, penso a quella catalogazione per frammenti dei sentimenti umani realizzata molti anni fa (quando Marco nasceva) da Goffredo Parise nei suoi Sillabari, che restano una delle più convincenti testimonianze poetiche della fine di un mondo.

I Sillabari erano il tentativo di trattenere l’idea di un sentimento “in forma di parole” , ma anche il sapore di un mondo che stava svanendo per sempre.

Ecco, credo che con TOOLS Marco Degl’Innocenti voglia presentare un suo personale sillabario in forma di scultura e ricordarci che, se non esiste più, non può più esistere quell’ordine antico, attraverso i frammenti reinterpretati di quell’antico ordine si può ancora usare il linguaggio dell’arte e della bellezza. Orion è un dei termini con cui in Grecia si indicava l’apparire della bellezza, fatto dinamico, momentaneo, vitale. È un aggettivo che ci va di accostare a questi lavori. Connotati da una sapienza e una preziosità intrinseci che però non hanno in sé nulla di epico, di compiaciuto. Si ricava piuttosto un’intonazione lirica, una nota teneramente ironica, un sentimento malinconico, uno stile sobrio.

 

Che la fionda di Marco Degl’Innocenti, magicien de la terre, possa colpire lontano…

Angelo Pauletti, febbraio 2017

Ci piace, per chiudere, accostare al testo due brevi frammenti poetici; uno di John Donne e l’altro di E.E. Cummings che crediamo possano aiutare a capire, il primo il senso di questa mostra, il secondo la poetica di Marco Degl’Innocenti.

UNA PARTENZA: VIETATO PIANGERE
“Così saremo tu ed io, che devo
come l’altro piede, correre obliquamente;
la tua fermezza rende il mio cerchio perfetto, e mi fa finire,dove io ho avuto inizio”
John Donne
“Sempre sia il mio cuore aperto ai piccoli uccelli che sono il segreto del vivere qualsiasi loro canto è meglio del sapere
e li uomini che non li sentono sono vecchi”

E.E. Cummings

Su alcuni manufatti di Marco Degl’Innocenti,  testo di Adolfo Natalini

Attrezzi da lavoro: innestati su lunghi manici di legno una mano ad artiglio è un rastrello, una mano distesa in verticale è una vanga, una mano in orizzontale è una zappa. Il progenitore di tutti i coltivatori è entrato  in un negozio di attrezzi: ha comprato solo i manici, i ferri li aveva già nelle mani. In un racconto di Borges un ignoto Pierre Menard scrive oggi il Don Chisciotte senza farne una copia: è una nuova creazione identica all’originale ma differente per il tempo in cui viene prodotta.

Una volta ho visto Marco lavorare sulla copia delle formelle della porta nord del Battistero fiorentino. Ho cercato dietro le sue spalle l’ombra del Ghiberti: sicuramente ne avrebbe ammirato il mestiere sapiente e la passione. Marco aderisce alle cose: le sceglie, le riproduce, le combina, le inventa, le crea in un processo senza fine in cui le cose si caricano di senso e alla fine sono un autoritratto.

Un’incudine di terracotta invetriata è pronto a sostenere i colpi crudeli di un maglio di ferro rimanendo in bilico su un su un sontuoso cuscino di velluto rosso. È più duro il ferro o la terracotta? Come nel gioco sasso forbici e carta ognuno vince sull’altro ciclicamente. Una fionda tende invano i suoi elastici che sono diventati  rigidi di bronzo. Un piatto da batteria attende d’esser  percosso dalle bacchette ma nel frattempo è stato inglobato da un tronco d’albero cresciuto nell’intervallo di una battuta. Mappe fantastiche nascono dal craquelé di piastrelle in ceramica e spilli con teste sferiche segnano il luoghi notevoli al viaggiatore curioso o al flàneur.

Di uno strumento meccanico di una civiltà scomparsa è rimasta solo la fragile custodia di cotto  che era sicuramente destinata a scomparire prima del ferro che conteneva. Un naturalista folle ha collezionato campioni vegetali e li ha resi eterni con un rivestimento in  caolino. Una pila di mattoni in laterizio porta i segni di un divoratore di argilla. Una custodia di velluto raccoglie un  set di cucchiaini da caffè che contengano nell’incavo l’impronta digitale dell’autore: sfuggiranno all’ incauto commensale cleptomane. Una coppia di guanti da giardiniere masochista hanno spine di rosa conficcati nel  palmo della mano.

Marco Degli Innocenti lavora come un alchimista nel trasformare le materie e lavora come un artista che, come scriveva Paul Klee, non rappresenta il visibile ma rende visibile. I suoi oggetti scultura sono esplorazioni in un’altra dimensione e in un altro tempo. Seppur prodotti ora e qui non sono contemporanei: il presente non basta e chi sposa lo Zeitgeist resta presto vedovo. I suoi oggetti scultura raccontano un’ arte antica della materia che travalica i tempi trasformando idee in cose e cose in idee. È in questo vagabondaggio della fantasticheria che sta il lapsus (il salto, l’inciampo) tra l’idea e l’ oggetto.

Marco Degli Innocenti ha rinunciato da tempo all’innocenza, malgrado il destino insito nel nome (nomen-omen) e affronta il mondo con la crudele gentilezza dell’artista.

Ora attendiamo altri suoi manufatti destinati alla nostra meraviglia.

Adolfo Natalini